Quando, come tema per una serata conviviale del nostro Club Rotary Roma Eur di fine aprile, c’è stato annunciato che vi sarebbe stata la presentazione (con possibile conseguente discussione) di una interessante pubblicazione, frutto della collaborazione come coautori di ben venti magistrati, intitolata “Ritratti del coraggio – lo Stato italiano e i suoi magistrati”-, confesso che mi è balenata la maligna idea che – in questo particolare momento storico nel quale la percezione valoriale della nostra magistratura come apparato dello Stato non gode certamente di ottima salute e spontanea adesione popolare – forse ci saremmo imbattuti nell’ennesima difesa corporativa d’ufficio della categoria magistratuale (alla quale peraltro anche chi qui scrive per lunghi anni ha appartenuto come magistrato amministrativo).
Incuriosito dal fatto che il curatore/coordinatore di tale pubblicazione fosse il magistrato dr. Stefano Amore dalle multiformi esperienze (è stato Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria, Giudice di Tribunale nonché incaricato di delicate funzioni di carattere amministrativo e scientifico sia presso il Ministero della Giustizia e sia in numerosissimi Comitati, Commissioni, Riviste scientifiche e Organismi vari tanto a livello nazionale che internazionale, mentre attualmente svolge funzioni istituzionali di Assistente di studio presso la Corte costituzionale) ho avuto la possibilità di sedere al tavolo conviviale con lui nostro relatore della serata. Dire che mi sono riveduto pressoché immediatamente dal mio pregiudizio è dir poco di fronte alla conoscenza diretta del suo pensiero, dei suoi risvolti culturali e soprattutto della sua umana simpatia ed empatia.
Il libro da lui curato è, in realtà, lo specchio della vera essenza di quello che dovrebbe essere la vera storia dell’anima di una istituzione come la Magistratura (purtroppo attualmente, come dicevo, oggetto di pur comprensibili attacchi e incomprensioni che non lasciano alcuno spazio per intravedere invece il prezioso “segreto” vitale di civiltà che essa proprio come istituzione racchiude). In breve, il libro in questione contiene, seppure in maniera sintetica, ma efficacissima, la narrazione attuale e moderna di ciò che anticamente si sarebbe chiamato “Atti autentici dei Martiri”, ossia il ricordo e la memoria dei ventotto magistrati (uomini e donne da Antonino Giannola nel 1960 fino a Fernando Ciampi nel 2015, rammentando tra gli altri la vicenda di Rosario Angelo Livatino, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino) che nel corso della vita della Repubblica italiana hanno sacrificato la loro esistenza in perfetta coerenza col “segreto” di cui ho appena accennato. E quale sarà mai questo segreto? La pubblicazione, e la bella discussione che ne è nata, ci ha aiutato a comprendere la sottile e fine struttura che ha a che fare non solo e non tanto con la difesa della “legalità”(parola del resto, spesso e a sproposito, abusata) quanto con la “sostanza” dell’Etica e della Moralità che -ancorché cacciata formalmente dalla “porta” dalla teoria propugnata da parte di taluni studiosi “puri” del diritto- rientra fatalmente dalla “finestra” della vicenda umana degli uomini e delle donne che sono chiamati quotidianamente a incarnare l’astratto diritto (come, per preciso esempio, i magistrati sopra ricordati che si sono dovuti occupare della concreta applicazione del diritto penale – e segnatamente della lotta contro la criminalità organizzata e contro la madre di ogni antietica, ossia la corruzione – a prezzo della loro stessa vita).
Se – come personalmente sono portato a ritenere – l’Etica pur essendo certamente declinabile in maniera non universale e assoluta, riguarda, in ultima analisi le regole che disciplinano gli imprescindibili rapporti naturali e obbligati di ciascun individuo con gli altri e il resto del mondo, mentre la Morale riguarda soprattutto i rapporti di ogni soggetto con se stesso, il punto d’incontro tra queste due istanze naturali diverse (non può esistere infatti una solatia “Etica pubblica” né tanto meno una solatia “Morale pubblica”) non può che essere quello che coniuga la propria personale coerenza dell’agire morale con l’Etica da tutti accettata e percepita nel proprio gruppo umano di concreta storica appartenenza. Compito quindi difficilissimo, e talvolta addirittura rischiosamente mortale per coloro che, come i magistrati, debbono applicare “incarnandola e inverandola” una legalità la quale , con i suoi limiti formali che sono sotto gli occhi di tutti, non avrebbe alcuna vera dimensione umana se isolatamente presa all’infuori di un’etica di base che essa sottende e non legittimerebbe certo, di per sé sola, alcuna “autorevole” autorità normativa superiore (locale, statale e sopranazionale) alla quale rendere incondizionato e indiscutibile ossequio. Credo che nessuno infatti nell’attuale mondo post-moderno sarebbe oramai disposto a fare affidamento ciecamente sulla vecchia definizione canonistica della legge quale aprioristica “sanctio sancta praecipiens honesta prohibensque contraria”! Purtroppo la coerenza innata con la combinazione dei principi etico/morali di cui sopra talora, come ci dimostra il libro di cui discutiamo, può portare anche al sacrificio (certo non personalmente ricercato) della vita dell’operatore di giustizia (come pure di altre categorie umane), sicché ci si potrebbe chiedere, da un punto di vista esclusivamente soggettivo, a che pro?
La volgare risposta che talora si sente circolare al riguardo che nei casi degli operatori di giustizia come i magistrati si tratti di martirio “nell’interesse della legge” lascia non solo insoddisfatti, ma appare addirittura grottesca, offensiva e fuorviante.
E qui la risposta non può che fare riferimento al “segreto” di cui si accennava prima: la vita umana sarà piena e degna di essere vissuta solo se si accetta l’idea che essa – piaccia o no – è fondamentalmente e finalisticamente un “servizio mutualmente solidaristico” verso il resto del mondo perché il dogma ed il culto della semplice e assoluta singolare “individualità” non può invece di per sé avere alcun senso ultimo, stante l’evidente fatale mortalità di ogni individuo, se non si entra nello spirito vitale e funzionale della propria completa realizzazione mediante il “servizio”.
Il segreto dell’insegnamento che si trae dal Diritto e dalla Magistratura è quindi quello di rappresentare plasticamente l’esigenza di un necessario fondamentale “servizio umano”, camuffato, troppo spesso e purtroppo interessatamente, sia pure per esigenze pratiche, ma non certo sostanziali e ideali , solo da “Potere”.
Del resto non sta scritto nelle Beatitudini del Discorso della montagna tramandate dal nostro Vangelo (e universalmente riconosciute tanto che un gigante dei tempi moderni come Gandhi vi faceva assoluto affidamento) che coloro che ricercano la giustizia sono beati perché di essi “è” già ora (e non “sarà” in futuro come viene pur detto a proposito di altre categorie umane) il Regno dei Cieli?
Da ultimo mi sia consentita una maliziosa riflessione “corporativa e birichina” da (ormai vecchio e necessariamente scettico) rotariano. Non sarà che anche il nostro vecchio Rotary, a modo suo, prospettandoci – sia pure in maniera assai “soft” – l’ideale del servire al di sopra del proprio interesse tenta di accompagnarci tutti (per la verità a buon mercato e assai dolcemente) verso la scoperta e la condivisione di tale esistenziale “segreto” che anche una illuminante storia della magistratura ci offre?
Giuseppe Faberi